di Benjamin Bourgeois
Testo integrale dell’articolo “Qui a encore le courage d’éduquer les enfants?” pubblicato su La Libre Belgique il 18 luglio 2025.
Ho trascorso tutta la mia vita adulta a educare bambini e adolescenti: in Belgio, Francia, Perù, Stati Uniti e ora in Italia, dove mia moglie e io abbiamo fondato un progetto educativo. Ovunque abbiamo riscontrato lo stesso problema, anche nel profondo della giungla amazzonica. Un articolo apparso sulla Libre Belgique poco tempo fa ne ha fornito l’illustrazione più recente: parlava di bambini delle elementari che fumavano apertamente sigarette elettroniche a partire dalla quarta, e dei loro genitori “che non sanno più cosa fare!” Questa perdita di controllo da parte dei genitori è un fenomeno mondiale. Le soluzioni al problema delle sigarette elettroniche e a tanti altri esistono e sono anche semplici, ma consistono tutte nella decisione di educare i bambini.
Ma educare è diventata una parola fuori moda. Oggi, noi “accompagniamo” i bambini nella loro crescita, “nutriamo” i loro talenti e “prendiamo cura” delle loro debolezze. Ma chi ha ancora il coraggio di educare? Di dire mille volte “no”, di costringere i bambini a fare uno sforzo, di esigere che si comportino bene? Costringere ed esigere sono diventate anche loro parole vietate.
Le conseguenze di questa mancanza di educazione sono drammatiche per i giovani adulti che l’hanno subita. Due esempi reali: qualche mese fa, una donna tra i 25 e i 30 anni è salita sul mio treno un attimo prima della chiusura delle porte. Accortasi di aver sbagliato treno, ha iniziato a agitarsi molto, ha richiesto invano di poter scendere per poi cominciare un vero e proprio attacco di panico.
Un mio amico ingegnere mi raccontava che un giovane appena uscito dall’università è scoppiato in lacrime quando, pochi giorni dopo aver intrapreso il suo primo lavoro, dopo aver realizzato la prima bozza del suo primo incarico, il capo gli ha detto che c’erano due cose da correggere.
Da dove vengono queste debolezze di carattere? Perché i giovani di oggi vengono percepiti fragili ed ego-centrati dalle precedenti generazioni? Fragilità e ego-centrismo, quando presenti nell’anima di un giovane, sono fonti di grandi sofferenze, fra le quali quella drammatica di sentirsi incapace a entrare in un mondo percepito come violento e senza speranza. Ne derivano dipendenze (anche al mondo digitale), violenza (verso di se o degli altri), depressioni e altri disturbi sempre più frequenti. Cosa possiamo fare come educatori per prevenire questo?
Goethe ha riassunto l’essenza dei due gesti educativi fondamentali in poche parole:
“Il talento nasce nel tranquillo isolamento; il carattere si tempra nel fuoco del mondo”.
Questi sono due gesti distinti, anche se sempre intrecciati nella nostra anima: proteggere dal mondo ed esporre al mondo. La gravidanza corrisponde al primo: nel grembo della madre, protetti dal mondo, si forma il corpo fisico. Il dopo parto corrisponde al secondo: “Ora usa il tuo corpo! Respira, mangia, muoviti! Cresci!”. Il primo gesto è avvolgente, pieno di amore; porta conforto, calore e un luogo intimo dove lavorare su se stessi. Il secondo richiede uno sforzo, fissa degli obiettivi e comporta una certa dose di sofferenza, ma è pertanto privo di amore?
La società prima del ‘68 era dominata da questo secondo gesto, reso rigido e meccanico dalla tradizione. La disciplina militare è un esempio dell’eccesso del secondo gesto. Da lì siamo passati all’estremo opposto, eliminando ogni forma di obbligo nei confronti dei bambini, considerando ogni forma di autorità come una violenza. In che misura passare da un estremo all’altro è una evoluzione?
Quando i bambini sono molto piccoli, hanno bisogno di 95% di protezione e di 5% di esposizione. Lo svezzamento è uno dei primi atti di esposizione, un atto che costringe il bambino a confrontarsi con il mondo con un obiettivo specifico: riuscire a mangiare da solo. Man mano che il bambino cresce, diminuisce il bisogno di un giardino protetto e aumenta il bisogno di avventura. In linea di massima, il punto di equilibrio si raggiunge intorno ai 7 anni, dopo il quale il bambino ha sempre più bisogno di entrare nel mondo, di rafforzarsi e sempre meno di essere protetto da esso.
Attenzione però: nel dominio digitale stiamo assistendo alla tendenza opposta. Mentre fisicamente ed emotivamente i bambini sono iperprotetti, attraverso gli schermi sono totalmente esposti, abbandonati senza alcuna protezione a un mondo in cui il peggio è accessibile in due secondi ai più innocenti.
Il coraggio, la resilienza e la resistenza si ottengono attraverso le prove della vita. Sensibilità, finezza e talenti si ottengono coltivando il mondo interiore. Chi vorrebbe l’uno senza l’altro? Quando rinunciamo, anche inconsapevolmente, a educare i nostri figli, rinunciamo a questo secondo gesto.
Come vengono vissuti questi due gesti nella nostra società? I cartoni animati a disposizione dei nostri bambini ne sono un buon indicatore. Prendiamo ad esempio “I Mitchel contro le macchine” (“I Mitchel contro le macchine”, Mike Rianda e Jeff Rowe, Netflix, 2021). L’eroe è la ragazza, nerd, talentuosa e incompresa. Il padre è gentile ma sempliciotto, la madre paziente e comprensiva, il fratellino iperattivo. Il primo gesto è incarnato dalla madre, che fa la figura della santa. Il padre tenta invano di attuare il secondo gesto (cerca, ad esempio, di imporre che si mangi insieme senza telefonini in mano), ma viene costantemente respinto e presentato come un troglodita che non capisce la figlia. Il lieto fine arriva quando il padre rinuncia a cercare di educare la figlia e “la accetta così com’è”.
Ho trovato questo stereotipo in moltissime produzioni per bambini, ma anche per adulti: madri gentili, cool, incondizionatamente protettive e comprensive; padri deboli, stupidi o
rompiscatole che cercano sempre di imporre questo secondo gesto, cioè di educare. Cercate nelle produzioni per ragazzi un esempio di padre o di uomo che non sia né debole, né violento, né stupido. Un Cyrano de Bergerac, un Orzowei moderno… Personalmente, non ne ho trovati. I modelli maschili di cui si nutrono i nostri figli, da “Peppa Pig” a “Iron Man”, tendono a essere stupidi, violenti o deboli. E non parliamo dei videogiochi! Gli unici uomini validi sono quelli che riconoscono la loro natura femminile (“Shreck” per esempio).
Non sto suggerendo che sia un problema per un uomo riconoscere il proprio lato femminile, al contrario. Sto solo contestando il fatto che questa sia l’unica qualità che si possa riconoscere in un uomo.
In realtà, sia gli uomini che le donne sono capaci di entrambi i gesti. Nella mia esperienza, il primo tende a essere più facile per le donne e il secondo per gli uomini.
Nella nostra società, quindi, assistiamo a un rifiuto del gesto educativo a favore del gesto comprensivo/protettivo (per rinominare i nostri due gesti). Inoltre, il gesto educativo, con l’autorità che contiene, il fatto di porre dei limiti, di mettere alla prova è, nel suo rifiuto, associato al padre, mentre il gesto della comprensione è presentato come prerogativa delle donne (e degli uomini evoluti). Questa tendenza sociale è espressa in un pregiudizio culturale incosciente che ci porta a dire: “Il gesto educativo è violenza”, oppure “Il gesto paterno è violenza”.
Fragili ed ego-centrati abbiamo detto. Se i giovani non nascono con forze individuali innate di auto-educazione, l’eccesso di protezione e comprensione fa di loro degli ego-centrati ai quali tutto è dovuto; l’assenza del gesto educativo li rende fragili e “smidollati” davanti alle sfide della vita.
Nella nostra scuola, abbiamo introdotto una grande quantità di attività scoutistiche per riportare un sano tocco paterno all’educazione dei bambini. Abbiamo affidato loro molte responsabilità, come cucinare per tutti gli altri, gestire la pulizia dei locali senza l’intervento degli adulti, risolvere i conflitti attraverso un’assemblea settimanale in cui coraggio e tatto devono accompagnare ogni parola. Esigiamo da loro un costante rispetto reciproco e degli insegnanti, e diamo loro sfide difficili. Alla fine dell’anno, abbiamo chiesto loro: cosa vi è piaciuto di più? Anche se le risposte erano diverse, tutte avevano una cosa in comune: ciò che era piaciuto di più era quello che aveva richiesto più sforzi, o che era stato più “pericoloso”! Sempre più ricercatori riconoscono e promuovono il “gioco rischioso” come elemento fondamentale di una sana crescita. Riskyplay.it, movimento internazionale basato sul lavoro della Dott. Ellen Sandsetters, ne è un esempio.
Come lo afferma Jonathan Haidt nel suo bestseller mondiale “La Generazione Ansiosa”, i bambini hanno bisogno di sforzi, di grandi imprese, di rischi, di limiti e persino di dolore. Se non glielo si dà, lo cercheranno caoticamente e freneticamente negli eccessi dell’adolescenza o, peggio ancora, lo rifuggiranno per tutta la vita!
Per il futuro della nostra società, è fondamentale reintrodurre il gesto educativo/paterno in grande quantità e qualità. Non quello vecchio e rigido smantellato dagli studenti del ’68, ma un nuovo gesto paterno che, con amore ma senza complimenti, accompagni nelle prove, chieda sforzo, educhi a gestire la frustrazione e sappia dire “no”, con fermezza e senza violenza, come uno scomodo atto d’amore che ti costringe a crescere, figlio mio, figlia mia, perché tu possa diventare quello che puoi essere veramente, perché i tuoi talenti possano crescere e perché tu possa essere una luce nell’umanità di domani.

